Dalla parte dei lettori, fino alla porta.

Media, legittimità e il cortocircuito della fiducia

L’episodio avvenuto alla sede de La Stampa ha generato una reazione corale immediata, centrata quasi unicamente sul gesto e sulla sua condanna morale.

È un riflesso comprensibile, ma rischia di oscurare il contesto: non la porta sfondata in sé o la distruzione della sede in una giornata di sciopero, ma ciò che quel gesto segnala all’interno di un ecosistema dell’informazione già in difficoltà.

La dinamica che si è attivata — indignazione, appelli alla difesa della democrazia, richieste di solidarietà — mostra quanto sia diventato stretto lo spazio fra ruolo pubblico del giornalismo e percezione sociale dello stesso. Uno spazio oggi più fragile di quanto si voglia ammettere.

La vandalizzazione di un luogo di lavoro è da condannare, ovvio; un compito francamente elementare, semplice come riconoscere il bianco dal nero. Allo stesso tempo, è difficile ignorare il fatto che episodi di questo tipo emergano in un clima di sfiducia che si è stratificato nel tempo: una distanza crescente tra lettori e sistema dei media. Una distanza che, nel contesto italiano, ha trovato una nuova visibilità — ma non consapevolezza, si direbbe — negli ultimi due anni, soprattutto sui social, dove la copertura del genocidio a Gaza è stata ben più ampia, immediata e accessibile rispetto a quella presente sui quotidiani o nei notiziari televisivi.

A lasciarmi sgomenta è che di fronte a un segnale di tale conflitto — non solo ideologico bensì morale, e con implicazioni deontologiche facili da individuare anche per i non iscritti all’albo — la narrativa del martirio democratico si sia attivata immediatamente da parte dei giornalisti: “La libertà di stampa è sotto attacco”, “siamo soli”, “non ci difendete”.

Ed eccola là, la distanza siderale tra come la stampa percepisce sé stessa e come la percepisce il pubblico.

Ma datemi un attimo, che ci arrivo…

Il contesto internazionale: l’articolo di The Verge

C’è una cosa che continuo a osservare, ogni settimana, ogni volta che preparo contenuti, leggo ricerche o parlo con studenti e professionisti: l’informazione oggi non arriva più dalle nostre ricerche ma ci piomba addosso. Non scegliamo quasi mai cosa leggere. Scegliamo solo quanto restare dentro il flusso.

Il recente articolo di The Verge sul rapporto tra studenti americani e informazione aiuta ad ampliare il quadro: la maggior parte dei giovani si informa quasi esclusivamente tramite TikTok e Instagram. Non perché manchi l’intelligenza o la curiosità. Ma perché il feed è già lì, modellato su di noi. È pratico, rapido, confortevole. E soprattutto: ci dà l’illusione che, se qualcosa è importante, comparirà lì.

Il dato che colpisce?
📌 Il 72% degli studenti usa i social come fonte primaria di notizie.
📌 Solo il 20% legge davvero giornali o newsletter, pur ritenendole più accurate.

Succede così: il video (il formato maggiormente indicizzato e reso visibile dagli algoritmi) appare. Ci incuriosisce. Googoliamo. E spesso ci fermiamo alla risposta generata dall’AI, considerata una scorciatoia sufficiente. L’ecosistema è questo: prima arriva il “segnale algoritmico”, poi la verifica. Forse.

E questa dinamica non riguarda solo “i giovani”. Riguarda chiunque viva immerso in piattaforme che sono diventate il nostro habitat cognitivo.

Non è mancanza di spirito critico. È architettura dell’attenzione.

David Foster Wallace parlava di “addestramento della spettatorialità”: più lasci che un flusso organizzi il mondo per te, più diventi bravo a consumarlo e meno disposto a cercare altrove.

E quindi?

I quotidiani vengono considerati più accurati, ma meno accessibili; più autorevoli, ma meno leggibili; più istituzionali, ma anche più distanti.

Il risultato è paradossale: contenuti prodotti da creator — persino account basati su personaggi fittizi o ironici, pesci parlanti che leggono le notizie del giorno e simili — vengono percepiti come più affidabili sul piano della fruibilità, non necessariamente dei contenuti.

È una questione di formato, ritmo, linguaggio, accesso.

E questo vale anche fuori dagli Stati Uniti.

La sfiducia come fenomeno collettivo e algoritmico

È un circolo vizioso: stai nel flusso → il flusso diventa il tuo riferimento → fuori dal flusso c’è fatica → ciò che è fuori lo conosci meno → ciò che conosci meno ti ispira meno fiducia → ciò che ti ispira meno fiducia lo cerchi ancora meno.

La fiducia, alla fine, diventa un sottoprodotto della ripetizione.

Inserito nel nostro contesto, significa che l’episodio di Torino non è una parentesi, ma un sintomo: l’informazione tradizionale non riesce più a essere luogo naturale di riferimento, soprattutto per i più giovani. Ma il problema non è “i giovani non leggono più il giornale”.
Il problema è che le piattaforme hanno reso superfluo tutto il resto.

E se in tutto ciò la stampa diventa il simbolo di un sistema che travisa, silenzia, manipola o distanzia dalla verità il lettore, possiamo dire che abbiamo almeno due nuove categorie di problema ben più emergenziali da affrontare: uno di manifesto ordine pubblico e un altro, gigantesco, di legittimità democratica.

Il nodo dell’accessibilità

Un altro elemento che emerge con forza è il ruolo dell’accesso economico.

In queste ore ho visto giornalisti puntare il dito contro i lettori: quelli che “non comprano i giornali”, che “non pagano per podcast e approfondimenti”, che “non difendono la categoria, già fragilizzata da compromessi e precarietà”.

Lo sappiamo: gran parte dei contenuti approfonditi — articoli, inchieste, podcast — è oggi riservata a forme di abbonamento o paywall. È un modello di sostenibilità comprensibile, ma ha un effetto collaterale: trasforma la possibilità di informarsi in un privilegio.

E quando informarsi diventa un bene scarso, non si può pretendere che il pubblico ne sostenga il costo “per dovere civico”.

In questo scenario, la discussione sulla democrazia non può più limitarsi alla retorica della difesa del giornalismo: deve includere il tema dell’accessibilità, economica e culturale.

Come possiamo accettare che l’accesso a informazione approfondita e di qualità diventi un privilegio economico? Che per capire il mondo bisogna poterselo permettere? Che “informazione libera” significhi “informazione libera solo per chi può pagarla”? Che l’approfondimento stesso diventi un bene di lusso? Sono domande dal peso politico enorme.

Anche perché l’evento è già stato assorbito dalla propaganda di chi del peggioramento della libertà di stampa in Italia può già intestarsi gran parte dei meriti.

Il dito e la luna

Si punta il dito al danneggiamento di un immobile e intanto si evita accuratamente di guardare alla luna: come si arriva al punto in cui la stampa non è più percepita come un organo a tutela della democrazia, ma come un avversario simbolico?

Forse perché più del prezzo di un abbonamento, pesa:

  • il modo in cui i media contribuiscono alla costruzione del consenso;

  • la loro capacità (o incapacità) di rappresentare il Paese;

  • la distanza crescente tra ciò che accade e ciò che viene raccontato;

  • la logica dell’autoassoluzione immediata ogni volta che qualcosa scricchiola.

Non è un interrogativo comodo, ma è l’unico che consente di interpretare correttamente il segnale che arriva dall’esterno.

E invece il gesto dell’assalto è stato trasformato in una scorciatoia narrativa: un modo per evitare un esame di coscienza e che ci impedisce di riflettere sul fatto che la diffidenza verso la stampa non si origina da singoli episodi, ma da una somma complessa di concause: assenze, omissioni, scelte editoriali percepite come sbilanciate, precarietà strutturale che limita la critica interna e la libertà d’espressione dei giornalisti.

È questo che ha generato una distanza crescente tra “ciò che accade” e “ciò che viene raccontato”. Distanza che oggi si riflette in un pubblico che non reagisce più come previsto. Non con la difesa del mezzo, ma con l’indifferenza o, in casi estremi, con gesti simbolici di contestazione.

E allora eccolo, il punto politico reale, quello che nessuno vuole toccare: come si garantisce una libera informazione che sia davvero libera — legalmente, economicamente, culturalmente — senza esporre i giornalisti alla precarietà e senza consegnare tutto il resto agli algoritmi?

È una domanda che richiede di guardare ai finanziatori, ai modelli di business, alle gerarchie interne delle redazioni, ai meccanismi di costruzione della notizia.

Richiede di ammettere che la precarietà produce silenzi.

Che il privilegio esiste.

Che la rappresentazione è potere.

Richiede un coraggio che il sistema mediatico mainstream, semplicemente, non sta mostrando.

Una riflessione conclusiva

Nel frattempo, fuori dai palazzi della stampa, si muove quell’altra forza: gli algoritmi.

Gli stessi che hanno reso superflua la scelta, la fatica, la complessità. Gli stessi che hanno offerto alle nuove generazioni un accesso all’informazione più rapido, più personalizzato, più emotivo — e quindi più credibile.

Il cortocircuito è totale: la stampa rivendica autorità, ma l’autorità è stata delegittimata proprio nel momento in cui ha smesso di interrogare sé stessa.

Il gesto contro la sede del giornale è stato simbolico. La reazione, invece, mostra una fragilità strutturale.

Siamo in un momento in cui la relazione fra stampa e pubblico non può più basarsi sull’autorevolezza presunta: richiede fiducia, accesso, trasparenza e un cambiamento reale dei linguaggi.

I danni si riparano in un pomeriggio. La distanza che si è creata negli anni no. Ed è su quella distanza — non sul gesto episodico — che oggi sarebbe necessario concentrare la riflessione.

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